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I Fiori di Papavero – Teatro in musica

Regia di Angela De Gaetano

Testo di Dario Carmentano, Grazia Lascaro

Musiche di Loredana Paolicelli

Costumi di Stefano Cavalleri

I Fiori di Papavero è un racconto ambientato nell’Italia Meridionale, durante il periodo delle invasioni barbariche. Siamo nel IX sec. d.C. Si narra di una epopea drammatica, mistica e redentiva: un miracolo d’amore ed arte. Lotte e avvicendamenti di duchi e principi per la conquista di territori e potere, fanno da cupo sfondo alle vicende della duchessa di Benevento Romilda e di suo figlio Papavero.
Una società rozza e crudele che travolgerà inesorabilmente il corso delle loro vite.
Il bambino affidato alle cure di frati benedettini, verrà chiamato Papavero per via dei suoi capelli rossi e svilupperà doti artistiche notevoli alimentate dagli insegnamenti di Fra Mariano, suo mentore e padre putativo. Papavero, perseguitato da Radelchi, l’uomo che ha ucciso suo padre, fuggirà dal convento di Fra Mariano per rifugiarsi, nei pressi della città di Matera, in una grotta utilizzata come ricovero dalle pecore. In questo luogo, circondato da una natura rigogliosa e preponderante, Papavero troverà pace e tranquillità. Qui avverrà la sua redenzione e la sua vena artistica raggiungerà vette elevatissime, tanto da trasformare la grotta in una delle chiese rupestri più belle e straordinarie di Matera, ancora oggi ammirata: la cripta dei Cento Santi.

Note di regia

Sono rimasta affascinata dalla storia di Papavero, perché questa storia è riuscita a parlarmi dell’ineffabilità dell’arte. Fin dal primo incontro con gli autori riguardo all’ipotesi di allestimento, ho sentito l’esigenza di far ruotare la mia ricerca intorno ad alcuni concetti per me centrali nel racconto: l’arcaico, lo stupore, il corpo. Pur avendo una collocazione temporale precisa, questo racconto è intriso di arcaico, ossia è pregno della suggestione di un processo collettivo inconscio che nasce oltre una linea temporale definita; un processo così lontano nel tempo che sembra non riconoscere lo scorrere del tempo nel suo divenire, in quanto il tempo non gli appartiene. Il racconto si libra in una dimensione “pura”, affine a un “prima” che crea un bagliore intimo, una scintilla viva nella memoria individuale, riconnettendo l’istante presente con l’assoluto. Nel sangue e nella violenza dei fatti di cui è vittima, Papavero incarna lo stupore, pienamente, in ogni fibra del suo essere. E’ una creatura che viene miracolata dalla sua stessa arte.
Papavero esiste in una lacrima di meraviglia, colta nell’istante in cui si fa goccia piena, e – solo per un attimo – è possibile scorgere al suo interno il riflesso di un mondo vivo in miniatura. Papavero è lì, in ogni goccia, fragile e potente al tempo stesso, con la sua estasi e con la sua sofferenza. L’estasi della sua arte e la sofferenza del suo corpo; corpo che si fa strumento con cui abita il mondo. Il suo stare al mondo è essere “fuori” dal mondo, in un rapporto dinamico con la materia: la sua bocca articola suoni, i suoi occhi accarezzano il paesaggio, le sue mani plasmano immagini, conducendolo lì dove le sue gambe non potranno mai portarlo.
Il poeta Octavio Paz scrive: “Albero di sangue, l’uomo sente, pensa, fiorisce e dà insoliti frutti: parole” .
Lo spettacolo, attraverso l’incedere delle parole, ri-crea tempo e spazio e, scardinandoli da ogni convenzione, intreccia i nostri sensi e il nostro pensiero, lasciando entrare una luce cristallina attraverso le feritoie dell’anima.

Angela De Gaetano